giovedì 10 dicembre 2015

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Raccolto di sangue 20,00 euro
Soldati lunghi 20,00
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venerdì 27 novembre 2015

Pierluigi Romeo di Colloredo SOLDATI LUNGHI I Granatieri di Sardegna nella guerra 1915-1918





Pierluigi Romeo di Colloredo
SOLDATI LUNGHI
I Granatieri di Sardegna nella guerra 1915-1918


I Granatieri di Sardegna, le cui origini risalgono al 1659, costituiscono il più antico reparto europeo: le Guardie di Casa Savoia, che presero parte a tutti i conflitti del Piemonte prima e del Regno d'Italia poi. 
Nel Primo Conflitto Mondiale la Brigata Granatieri di Sardegna fu impiegata nei settori più difficili del fronte, in località entrate nella leggenda quali Monfalcone, il Carso, Oslavia, Monte Cengio, Lenzuolo Bianco, Flambro, le foci del Piave, e finita la guerra, marciarono su Fiume con D'Annunzio. Su una forza di 6.500 uomini i Granatieri ebbero alla fine del conflitto oltre 7.000 morti e 15.000 feriti; la relazione ufficiale austriaca dopo la Strafexpedition del 1916 li definì i migliori soldati italiani. 
Questo libro tratteggia in dettaglio l'epopea della Brigata, che ebbe nel corso del conflitto il maggior numero di massime decorazioni al valore individuali; un lavoro che, senza omettere le crudeltà della guerra, gli errori, le polemiche che hanno evidentemente colpito - come tutte le altre unità - anche i Granatieri di Sardegna tra il 1915 ed il 1919, non ha l'obiettivo di smontare miti, svelare complotti ed operare analisi sociali. Si prefigge, invece, di ricostruire una pagina di storia, o meglio, la biografia di un'importantissima unità del Regio Esercito nel Primo Conflitto Mondiale, finora incredibilmente quasi dimenticata dagli addetti ai lavori.

F.to 14x21, 194 pagg., alcune ill. b/n, Euro 20,00.


PER INFO E ORDINI
“ITALIA Storica”

Via Onorato 9/18
16144 Genova
GE
E-mail ars_italia@hotmail.com

venerdì 25 settembre 2015

ITALIA Storica + Soldiershop = ITALIA Storica eBooks!



La nuova collana di ebook di storia nata dalla collaborazione tra ITALIA Storica e Soldiershop, specializzata principalmente in storia del 900 e sopratutto su temi legati al secondo conflitto mondiale.

Potete acquistare i titoli, a prezzo vantaggioso e nel comodo formato digitale, qui:


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MORTO FRANCO GRECHI, IL MARÒ-BAMBINO DELLA DECIMA MAS





È morto ieri, all'età di 83 anni, Franco Grechi, tra i più giovani aderenti alla RSI quale dodicenne mascotte del Battaglione Barbarigo della Decima Flottiglia MAS.
Nato nel 1932, e con il padre ufficiale, nel febbraio 1944, infatti, il giovanissimo Grechi si presentò all'ufficio arruolamento della Xa MAS a La Spezia, chiedendo di essere arruolato in quel corpo militare che non aveva abbassato la bandiera, rimandendo in armi e guadagnandosi il rispetto dei tedeschi, che ritenevano, non a torto, di essere stati traditi dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Davanti all'incredulità dell'ufficiale di giornata, il quale ovviamente, seppur comprendendo le ragioni ideali di quel gesto, stava respingendo il ragazzino che gli si era parato davanti, Grechi, pur di farsi arruolare, si inventò di essere rimasto orfano dopo un bombardamento Alleato (ipotesi purtroppo realistica, viste le decine di migliaia di civili italiani rimasti uccisi dalle bombe dei “Liberatori”) e di non aver nessuno da cui andare, e nelle parole di Grechi “Lui prese per buona la bugia; sentiti altri pareri fu deciso di adottarmi: non potevano mica cacciare un povero ofano!”.
Così Grechi fu arruolato, rivestito di una uniforme grigioverde “su misura” e fregiato dello scudetto da braccio della Xa MAS: quello scudetto con la X rossa e il teschio con la rosa in bocca, “perché la morte per noi è una cosa bella profumata... come una rosa!”, nelle parole della Medaglia d'Oro al Valor Militare comandante Salvatore Todaro, caduto in missione nel 1942.
E quando alla fine del mese il Barbarigo partì per la testa di ponte di Nettuno, prima unità militare della RSI a andare al fronte, dove infuriavano i combattimenti tra i tedeschi e le forze Alleate lì sbarcate, il marò Grechi seguì i suoi camerati verso il nemico.
Ovviamente, gli ufficiali del reparto tennero il marò-bambino presso il comando di Battaglione, per preservarlo dai combattimenti in prima linea: tuttavia, Grechi sopportò per mesi e senza cedere gli attacchi aerei e d'artiglieria, la fame, la carenza di sonno, il freddo e le intemperie di quell'inverno, prove che avrebbero spezzato uomini ben più forti di quel ragazzino.
Poi venne lo sfondamento Alleato, e la ritirata verso Roma e il ritorno a La Spezia dei superstiti del Battaglione, poco più di cinquecento sui mille partiti: i ragazzi del Barbarigo aveva pagato con 200 morti, 200 feriti e 100 dispersi il suo ostinarsi a non cedere davanti al “rullo compressore” Alleato davanti a Roma.
Ecco come Franco Grechi ricordava questo periodo in una intervista rilasciata anni fa (in Daniele Lembo, I fantasmi di Nettunia, Roma, 2000).

Dov'era alla data dell'8 settembre 1943 e che cosa ha provato all'annuncio della resa?
A casa. Una grande vergogna”.

Dopo l'8 settembre 1943 in quale reparto si è arruolato e perché?
Reparto di arruolamento Barbarigo Xa MAS – San Bartolomeo – La Spezia.
Mascotte a causa dell'età minorile e figlio di ufficiale”.

Se è stato impiegato sul fronte di Anzio-Nettuno quali sono i suoi ricordi di quei giorni e di quei fatti d'arme?
Giornate tremende, spirito elevatissimo e grande cameratismo. Zona Lago Fogliano”.

Dopo l'8 settembre 1943 ha mai creduto che gli italo tedeschi potessero ancora vincere la guerra e se non lo ha creduto perché ha continuato a combattere?
Minime le speranze di vittoria, ma si combatteva per l'onore”.

Dopo la guerra, Grechi rimase una figura di spicco nell'ambiente dei veterani della RSI, e in specie tra gli ex combattenti della Xa MAS, contribuendo con la sua orgogliosa testimonianza a tener vivo il ricordo di quei combattenti dell'Onore e delle loro battaglie.
Lo ricordiamo con le parole del comandante del Battaglione Barbarigo, MOVM della RSI e MAVM Umberto Bardelli, ucciso dai partigiani nel luglio 1944:



"Nessuno di voi è morto finché noi non moriremo tutti.
E fino a quando sarà in piedi uno del 'Barbarigo' lo sarete anche voi".



I funerali si terranno oggi 25 settembre, a Genova, Chiesa di S. Francesco d'Albaro, alle 11.45.


Andrea Lombardi



domenica 16 agosto 2015

Gassate! Del Boca, Mack Smith, la guerra italo-etiopica e l'uso dei gas


Gassate!
Del Boca, Mack Smith, la guerra italo-etiopica e l'uso dei gas
di Pierluigi Romeo di Colloredo


Quando il due ottobre del 1935 le truppe italiane passarono il confine con l’Etiopia varcando il fiume Mareb, numerosi esperti militari europei si affrettarono a predire una nuova Adua, o, nel migliore dei casi, che le enormi difficoltà logistiche non avrebbero consentito agli italiani il conseguimento di risultati rapidi e brillanti ed era stato previsto che la guerra si sarebbe arenata allungandosi per anni, se non addirittura sarebbe finita con una disfatta italiana.
Allora come oggi ad ogni guerra le redazioni dei giornali richiamavano in servizio vecchi generali in pensione, presentati come esperti di strategia e tattica. E allora come oggi le loro previsioni si presentarono quasi sempre completamente sballate.
Riportiamo ad esempio alcune citazioni di corrispondenti militari stranieri: così il Völkischer Beobachter, organo del Partito nazionalsocialista il 14 luglio 1935 prevedeva che gli italiani avrebbero fatta la fine di Napoleone in Russia; gli aeroplani si sarebbero rivelati inutili poiché non c’è niente da bombardare (Deutsche Allgemeine Zeitung, 11 aprile ’35); il giornale svedese Dagens Nyeter del 5 settembre ’35 scrisse che

...Contro l’Abissinia nulla possono né i gas [dunque anche un mese prima dell’inizio della guerra c’era già chi parlava di gas!] né gli aeroplani né le armi moderne degli italiani....

A guerra iniziata:

Dopo la stagione delle piogge tutto sarà consumato. Gli italiani hanno perduto, è inutile negarlo (Jouvenal, 25 gennaio 1936).

Tra i più scettici sul successo italiano furono i nazisti tedeschi: la volpe teutonica era ancora avvelenata per l’uva austriaca sottrattagli dall’intervento del Duce. Dopo la tensione tra Italia e Germania seguita all’omicidio di Dollfuss nel ’34, Mussolini era detestato in molti ambienti nazisti (si ricordi che oltre all’invio di un corpo d’Armata al Brennero nell’estate del 1934, le grandi manovre del 1935 vennero tenute in Alto Adige): il giornale delle SS Das Schwarze Korps era decisamente filoetiopico ed antifascista; il giornale nazista non si limitava a parteggiare apertamente per il Negus ma si burlava anche della crociata civilizzatrice del Duce e faceva dei pronostici velenosi sulle aleatorie probabilità degli italiani di sconfiggere rapidamente le armate del Negus, pronostici poi sconfessati dai fatti.
Naturalmente, allora come oggi, rivelatesi fallaci le previsioni catastrofiste, si disse poi che gli italiani avevano vinto grazie alla superiorità dei mezzi ed all’uso di armi proibite dalle leggi internazionali, e così via.
La batosta presa dagli abissini spinse gli inguaribili antifascisti ed anti-italiani a giustificare il bruciante insuccesso del negus ricorrendo alla storiella dell’uso dei gas, che avrebbe messo in crisi gli eroici combattenti etiopi.
Premettiamolo subito: gli italiani usarono i gas, e li utilizzarono molto più spesso di quanto la pubblicistica post-bellica di destra abbia voluto ammettere. Errore grave quello del negare l’uso dell’iprite, tanto da dare credito ad una propaganda di segno opposto, sovente grottesca nel falsare la realtà ben più di quella di matrice neofascista.
Sull’argomento si è passati infatti da una totale negazione ad un’acritica adesione alle tesi della propaganda etiopica sull’uso indiscriminato dei gas.
Dapprima i lavori dell’inviato del Giorno (spacciato usualmente per storico professionista, ciò che non è mai stato) il novarese Angelo Del Boca, poi di autori britannici quali Mockler (Haile Selassie’s War, I, The War of the Negus, tradotto non si sa perchè in italiano, ma che essendo uno dei pochi lavori in inglese sull’argomento è troppo spesso utilizzato da autori anglofoni come fonte) e l’indefinibile Denis Mack Smith nel suo pessimo Le guerre del duce fecero assurgere a verità di fatto le più strampalate leggende che la propaganda abissina, attendibile quanto un bollettino di guerra napoleonico, potesse concepire.
Cominciamo a vedere quali sono i fatti.
Per quanto riguarda l’uso dei gas asfissianti, la richiesta del maresciallo Badoglio (che non va dimenticato, s’era formato in gran parte durante la guerra 1915- 18, in cui i gas furono utilizzati normalmente) di utilizzare aggressivi chimici allo scopo di accelerare le operazioni belliche, richiesta accolta dal Duce solo in casi eccezionali per supreme ragioni di difesa (DEPA, Tel. Mussolini A.O., segreto, n. 14551), è da ritenersi una decisione profondamente errata: sotto il profilo militare, perché non recò alcun effettivo vantaggio; sotto il profilo politico perché diede l’occasione di screditare le forze armate e, quindi l’Italia, a tutti coloro che all’estero avevano disapprovato il conflitto, come scrisse il generale Bovio già direttore dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.
L’utilizzo di gas diventava addirittura una stupidaggine, e di quelle grosse, quando il loro impiego era così limitato da non produrre alcun sostanziale vantaggio militare: ma abbastanza diffuso da tirarci addosso tutte le conseguenze negative di un fatto che necessariamente prescindeva dalla “quantità”.
Spesso si è attribuito quasi un significato politico all’uso delle armi chimiche, tralasciando di notare come non si fece impiego dei gas nella prima fase della campagna, sotto il comando del fascista e quadrumviro della Rivoluzione De Bono, che pure, come comandante del IX Corpo d’Armata, nel 1918 usò i gas contro gli austriaci sul Grappa con la compagnia chimica X, ma a partire dal dicembre del 1936, sotto quello del tecnico Badoglio (e, in Somalia, di Graziani, che fascista non fu mai, neppure durante la R.S.I.). Mussolini diede sì l’autorizzazione all’uso delle armi chimiche, ma su richiesta di Badoglio in qualità di Comandante superiore e di Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, sul quale come s’è visto, faceva pieno affidamento per la parte operativa della campagna. Furono usate bombe all’iprite e, sul fronte sud, anche fosgene.
Si è affermato che vennero usati anche proiettili a gas sparati dai pezzi da 105/8, secondo il sistema in uso nella guerra del 1915- 18.
Va ricordato che all’epoca i gas non erano considerati una mostruosità, ma quasi come un’arma più umana e meno crudele di quelle convenzionali.
Per chi era uscito dalla prima guerra mondiale i gas erano un’arma come un’altra, ed adirittura preferibile ad altre, in quanto poteva fiaccare il morale avversario senza essere necessariamente sempre letale[1].
Il generale Fuller, uno dei maggiori innovatori britannici in campo strategico scriveva nel 1923 nel suo The Reformation of War:

...uccidere non è l’obbiettivo della guerra. Se quest’assunto è accettato, allora, dal momento che un bagno di sangue è antieconomico, un tentativo dev’essere certamente fatto per sviluppare quei mezzi che possano costringere un avversario a modificare la sua politica sconfiggendo il suo esercito senza spargimento di sange. La guerra dei gas ci consente di farlo, in quanto non c’è nessuna ragione per cui i gas impiegati come armi debbano essere letali (...) Il gas... è per eccellenza l’arma della demoralizzazione, e poichè può terrorizzare senza necessariamente uccidere, più di ogni altra arma conosciuta può servire ad imporre in modo economico la volontà di una nazione ad un’altra.

Non furono solo gli italiani ad usare aggressivi chimici. Gli inglesi usarono i gas nel 1931 a Sulainam, in Irak, per sopprimere il capo curdo Karim bey, reo dell’uccisione di due funzionari britannici e ancora nel 1935 in Afghanistan, lungo la frontiera con l’India, contro tribù pathane ribelli.
Va poi ricordato che una nave statunitense piena di aggressivi chimici venne affondata nel porto di Bari nell’ottobre del 1943 dalla Luftwaffe. Per una migliore comprensione storica il comportamento degli italiani in Etiopia andrebbe quanto meno contestualizzato nel quadro della condotta coloniale dell’epoca.
Angelo Del Boca si è spesso vantato d’esser stato il primo a portare a conoscenza del pubblico italiano l’impiego delle armi chimiche, ma ciò non risponde a verità.
Il Del Boca del resto può venire accusato di tante cose, dalla selettività nella scelta degli argomenti alla faziosità, ma certo non di falsa modestia: si pensi che  giunse a scrivere, parlando del proprio libro del 1965, che avrebbe a suo dire suscitato ampi consensi da parte della stampa democratica [sic, per di sinistra e d’area comunista] e, di riscontro, la violentissima reazione degli ambienti nazionalfascisti (Del Boca 1984, p.432; subito dopo il giornalista piemontese cita opere di vari autori, quasi tutti di un solo orientamento). Si tratta di un passaggio autoreferenziale davvero inconsueto, per di più nel testo e non in una nota a piè di pagina, la cui lettura è assai istruttiva per comprendere il personaggio. Naturalmente Del Boca si guarda bene dal citare le critiche alla sua metodologia di ricerca ed alla selettività sulla scelta delle fonti e del loro utilizzo (si vedano le parole dedicate al giornalista  da due storici professionisti, Luigi Goglia e Fabio Grassi nel loro Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Roma- Bari1981, p.425: e si tratta di autori certo non sospettabili di simpatie nazionalfasciste)
Che durante la guerra d’Etiopia si fossero usati i gas era invece noto già da prima dei lavori di Del Boca, malgrado le sue millanterie; basti  citare la testimonianza di Paolo Caccia Dominioni sui bombardamenti sul Mai Tonquà del gennaio ’36. Intorno al giorno 22 gennaio sul Mai Tonquà, sotto l’Amba Tzellerè, l’aviazione aveva impiegato i gas asfissianti per la prima volta; testimonia Caccia Dominioni:

Gli aerei hanno avuto, se così si può dire l’ala pesante. E non soltanto con bombe e mitraglia. Numerosi cadaveri non portano tracce di ferite (…). Sono giunte, con gli ascari, anche squadre dette di disinfezione, specializzate. Hanno ordine di non perdere tempo questi seppellitori: debbono far scomparire subito le tracce di quanto è successo.

 Giuseppe Bottai, tenente colonnello della divisione Sila, annota a sua volta nel proprio diario, alla data del 5 febbraio dello stesso anno:

(…) Precauzioni: non raccogliere le bombe inesplose dei nostri aeroplani, che si trovassero sul terreno e le schegge di bombe, che potrebbero essere ipritiche (…) [2] .

Circolavano inoltre fotografie scattate da soldati italiani di morti per i gas [3], che vennero sicuramente mostrate al ritorno dalla guerra ad amici e familiari in Italia.
Se realmente dunque gli aggressivi chimici fossero stati usati in maniera massiccia come preteso dagli etiopi e da certi storiografi se ne avrebbero molte più testimonianze, mentre molti soldati italiani poterono ignorarne l’uso in perfetta buona fede[4].
Ciò è ricordato anche da Luigi  Goglia:

a questo proposito (il fatto che i combattenti ignorassero l’uso dei gas asfissianti) è stato notato da altri, ma anche chi scrive ne ha fatto diretta esperienza intervistando reduci di quella campagna, che l’uso dei gas era ignorato  allora dai più (ancora oggi molti sono increduli)[5]

Basti dire che malgrado fotografie e filmati realizzati durante la campagna siano numerosissimi e ben noti, in nessuno è visibile un solo soldato italiano equipaggiato con portamaschere modello 1933 o 1935, cosa impensabile se davvero i gas fossero stati usati nelle quantità pretese dal giornalista novarese.
Anche il duca Luigi Pignatelli della Leonessa si era occupato dell’uso dei gas prima del giornalista novarese e con ben altra obiettività, scrivendo che:

Dobbiamo ritenere (e a Ginevra non lo smentimmo) che nel corso della campagna fu fatto talvolta uso, dai bombardieri italiani, di bombe all’iprite. L’impiego di questa terribile arma, che con altre simili e peggiori era stata largamente utilizzata da entrambe le parti belligeranti nella guerra 1914- 1918, fu limitato a particolari casi e se non mancò di avere effetto psicologico, fu ben lontano, come è ovvio, dall’agire risolutivamente sulle sorti della campagna. Sconsigliato a suo tempo dagli ufficiali esperti della guerra coloniale, fu, senza alcun dubbio, un inutile errore.
Un racconto anche sommario del conflitto italo etiopico, non può, in ogni modo, prescindere dal registrare obiettivamente il fatto, il quale non è destituito d’importanza[6] .

Come si vede, che i gas fossero usati non è certo una scoperta di Del Boca...
Il giornalista britannico Anthony Mockler, visto che non poteva attribuire ai gas italiani i massacri di cui si è favoleggiato, arrivò a scrivere nel suo Haile Selassie’s War, I, The War of the Negus, che

 Il gas costituiva un grosso problema, ma causava più spavento che danni (…) Anche quando i gas arrivavano a contatto della pelle, le scottature potevano essere evitate. Ras Immirù aveva avvertito i suoi uomini di “lavarsi sempre”[7].

Addirittura nel suo pamphlet sulle guerre del Duce Denis Mack Smith ( che il maggior storico del Risorgimento, Rosario Romeo, inserì nella categoria degli storici definiti Italy’s haters, lett. Odiatori dell’Italia) sulla base di due articoli di Del Boca, apparsi su Il Giorno del 12 e del 14 novembre 1968 arriva a scrivere di

...ordini espliciti di Mussolini che imponevano all’esercito di ricorrere se necessario, ad ogni mezzo, dal bombardamento degli ospedali all’impiego “anche su vasta scala di qualunque gas” e addirittura alla guerra batteriologica .

Va detto che Del Boca nelle sue opere ha avuto il buon senso di omettere accenni all’uso di armi batteriologiche, di cui l’Italia non disponeva. Programmi di ricerca in tal senso furono sviluppati dagli inglesi nel 1925 e dai giapponesi nel 1932; gli statunitensi iniziarono ad occuparsene nel 1941, e i tedeschi solo nel 1943[8].
Elementare buon senso che purtroppo è stato recentemente buttato nella spazzatura da giornalisti incompetenti in un pamphlet sulle armi non convenzionali usate dagli italiani.
Anche gli altri ordini citati dallo storico britannico non esistono: anzi, riguardo al bombardamento degli ospedali in un telegramma del Duce a Badoglio del 1 gennaio ‘36 si fa esplicitamente divieto di bombardare la Croce Rossa :

[V.E.] dia ordini tassativi perché impianti croce rossa siano dovunque e diligentemente rispettati: [9].

Mack Smith giunse a scrivere che Mussolini aveva deciso di attaccare l’Etiopia

riservandosi come obiettivi successivi l’Egitto e il Sudan e magari anche il Kenya.

Il che vuol dire credere che Mussolini fosse totalmente pazzo o non aver capito niente della visione sostanzialmente conservatrice della politica estera italiana sino alla guerra di Spagna; Mussolini temeva semmai che gli inglesi potessero attaccare dal Sudan le forze impegnate contro gli abissini, tanto che il 12 aprile del 1936 raccomandò a Badoglio di studiare eventuali misure difensive. Il Maresciallo incaricò di tale studio il gen. Babbini.
Si parlò dello studio delle possibilità di un’azione difensiva verso il Sudan come copertura per la missione di Badoglio e Lessona nell’ottobre del 1935, ma, come scrissero Indro Montanelli e Mario Cervi nel loro L’Italia littoria,

...De Bono (…) non era sciocco al punto di bere questa panzana.

Mack Smith evidentemente sì.
Ma lasciamo adesso Mack Smith e torniamo al Dalai lama dell’anti-imperialismo italiano, al fustigatore del colonialismo tricolore.
Del Boca fa naturalmente da grancassa alle chiacchiere della propaganda etiopica sugli apocalittici effetti dei gas asfissianti. Il buon Del Boca riporta diligentemente le dichiarazioni di ras Cassa di grande drammaticità che non si possono negare al lettore:

Il bombardamento era al colmo quando, all’improvviso, si videro alcuni uomini lasciar cadere le loro armi, portare urlando le loro mani agli occhi, cadere in ginocchio e poi crollare a terra. Era la brina impalpabile del liquido corrosivo che cadeva sulla mia armata. Tutto ciò che le bombe avevano lasciato in piedi, i gas l’abbatterono. In questa sola giornata un numero che non oso dire dei miei uomini perirono. Duemila bestie si abbatterono nelle praterie contaminate. I muli, le vacche, i montoni, le bestie selvatiche fuggirono nelle forre e si gettarono nei precipizi. Gli aerei tornarono anche nei giorni successivi. E cosparsero di iprite ogni regione dove scoprirono qualche movimento.

Una piaga biblica... Evidentemente gli uomini di ras Cassa non avevano acqua per lavarsi… né risulta che a causa dei gas sia deceduto un solo ascaro, un solo nazionale, un solo mulo italiano.
Ora, se è vero che i gas tossici furono certamente impiegati in misura assai maggiore di quanto ammise l’ex ministro delle colonie Michele Lessona, in realtà le armi chimiche non influirono in maniera rilevante sulle operazioni militari, così come non furono decisivi nella Grande Guerra.
Questa è anche l’opinione di Luigi Goglia che pur ricordando come l’uso dei gas non solo a scopo di rappresaglia sia ricordato nel Diario storico del Comando Supremo AOI , ma scrive che

da parte etiopica si è forse voluto sopravvalutare l’importanza dei bombardamenti a gas fatti dagli italiani[10]

Del Boca- ovviamente- accetta in toto le affermazioni del ras, arrivando a scrivere, a giustificazione delle melodrammatiche affermazioni di Cassa Darghiè sulla brina impalpabile ecc. che

l’iprite sinora era stata lanciata soltanto in grossi bidoni e non irrorata con speciali diffusori .

Il che è una tra le tante (troppe) sciocchezze sparse nel libro del giornalista novarese: i gas venivano lanciati con le bombe C.500T, che esplodevano ad un’altezza di 250 metri spargendosi poi per ellisse di 500 m per 100, e non diffusi con irrogatori.
Angelo Del Boca dedicò ampio spazio all’argomento della guerra chimica (cui dedicò un successivo volume, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia pubblicato dalla casa editrice del partito comunista italiano, e recentemente ripubblicato). Approfittando del prolungato e colpevole silenzio ufficiale sull’argomento la realtà venne deformata, parlando di migliaia, o addirittura centinaia di migliaia di morti.
Del Boca si affida per sostenere le sue tesi soprattutto a fonti abissine e a testimonianze di giornalisti anti-italiani che, ad esser generosi, si possono definire quantomeno di dubbia attendibilità.
Per quanto riguarda l’affidabilità della testimonianza di ras Cassa si può citare come esempio:

A Choum Aorié (...) le cento mitragliatrici che furono prese là, caddero nelle nostre mani senza l’aiuto del fucile, ma solo con quello delle sciabole. Nessuna forza di terra avrebbe potuto arrestare i miei uomini che sembravano passare fra le raffiche. Essi piombavano così rapidi sugli italiani che gli strappavano dalle mani il fucile (…) dinanzi a tali demoni, gli italiani, non conservando che i loro pantaloni appesi alle cinture, sparivano come la polvere .

Ovviamente, gli italiani durante la guerra d’Etiopia non persero mai cento mitragliatrici, nè in una sola giornata e nemmeno in tutto il conflitto. Come si vede, voler scrivere la storia della guerra d’Etiopia basandosi su queste fonti è come voler scrivere la storia della prima Crociata basandosi su Torquato Tasso. Però Del Boca finge di crederci...
Il fatto che siano stati  realmente usati i gas non deve nascondere che molto di quello che scrissero allora i giornalisti (poi ripreso da certi autori) fosse frutto di psicosi e di propaganda assolutamente non basata sulla realtà. Ewelyn Waugh  (Del Boca riesce a sbagliarne nome e cognome, chiamandolo Evelyne- che è un nome femminile!- Waught) ricorda che la notte tra il due ed il tre ottobre del 1935 i giornalisti di Addis Abeba erano in preda al timore dei bombardamenti italiani, aggiungendo che di certi corrispondenti si racconta che giocarono a poker tutta la notte indossando le maschere antigas [11]. La psicosi dei bombardamenti e la propaganda anti italiana nei primi giorni di guerra è ben evidenziato dall’episodio grottesco delle corrispondenze sul bombardamento e la distruzione dell’ospedale di Adua, distruggendolo ed uccidendo molte donne e bambini, e dove sarebbe morta un’infermiera volta a volta svedese od americana, della quale si davano anche il nome, ed una descrizione che in realtà variava anch’essa di volta in volta, come l’età, una bella signora alta un metro e settanta, di trentadue anni, descrizioni che variavano a secondo che “testimoni” fossero un greco che conosceva bene il posto, un architetto svizzero sposato ad una mulatta od un pilota di colore americano cui l’infermiera avrebbe offerto una cioccolata proprio cinque minuti prima del bombardamento. Lo stesso Haile Selassie rimase colpito e turbato dalla tragica fine dell’infermiera.
In realtà non erano mai esistiti né l’ospedale né la crocerossina martire, come ben presto Waugh ed i suoi colleghi avevano capito:

Quando cominciammo a cercare di raccogliere particolari sull’accaduto, ci nacque il dubbio che forse ad Adua non c’era mai stato nessun ospedale. Di certo non esisteva un ospedale etiopico, e le unità della Croce Rossa non erano ancora arrivate fin lassù; quanto alle missioni, non sapevano nulla di un loro ospedale ad Adua, né i Consolati sapevano di loro connazionali che vi fossero occupati.

I giornalisti furono costretti a rispondere alle pressione dei propri giornali per avere notizie:

Ben presto cominciarono ad arrivare cablogrammi da Londra e da New York: “Richiediamo al più presto nome biografia fotografia infermiera americana saltata aria”. Rispondemmo: “Infermiera non saltata aria” e dopo qualche giorno la cosa aveva già cessato di fare notizia: Waugh. Pignatelli scrive a proposito di quest’episodio: La stampa internazionale, nella quale contavamo in quel tempo ben pochi amici non ci risparmiò le sue rampogne, esagerò  anzi i racconti dell’episodio, indicando gli italiani come massacratori di popolazioni inermi.

Ancor oggi taluni  storici continuano a parlare del bombardamento di Adua e del suo ospedale. Il lettore forse non si stupirà nello scoprire che tra tali autori vi siano Del Boca  ed il buon Mack Smith.
Ma torniamo ai gas. Si è già ricordato come il primo uso di gas avvenne solo nel dicembre; ma la propaganda etiopica aveva già iniziato a parlarne prima della guerra, così che poi le denunce in proposito che vennero propalate da Addis Abeba vennero prese per vere (e lo sono tuttora) senza alcuna verifica! In molti casi morti di colera vennero spacciati per vittime delle armi chimiche, così come foto di lebbrosi vennero diffuse come di vittime dell’iprite[12].
L’iprite non sfigura i volti come la lebbra; né le fotografie di veri morti per iprite mostrano tracce di deformazioni simili.
Va ricordato come la concentrazione minima dell’iprite debba essere di un decimo di grammo per metro cubo d’aria:, ragion per cui. se si desiderasse appestare un quadrato di quattro chilometri di lato, alto una ventina di metri, anche questo piccolissimo valore darebbe pur sempre un peso totale di trentadue tonnellate, più quello dei contenitori o dei proiettili necessari.
Un bombardiere italiano del 1936 poteva trasportare sui cinquecento o mille chili di bombe: ne sarebbero occorsi non meno di una sessantina per un modesto raid che si proponesse il limitato obiettivo che c’è servito di calcolo e di semplicissimo esempio.
L’iprite è un gas estremamente persistente, perché non è solubile in acqua: il suo effetto può durare per delle settimane, addirittura mesi, rendendo impercorribili le zone in cui si è depositata, tanto che nella Grande Guerra veniva usato per inibire al nemico le avanzate e per favorire le ritirate. Proprio questa persistenza rendeva l’uso del gas estremamente difficile: in caso d’avanzata, occorreva prendere speciali precauzioni per la salvaguardia delle proprie truppe[13].
Né si deve dimenticare come bastasse un minimo di vento per disperdere subito la nuvola mortale: per cui la velocità del vento stesso, sulla base delle conclusive esperienze della prima guerra mondiale, non doveva mai superare i quattro o cinque metri al secondo. Ma se non ce n’era del tutto, la nuvola non si formava neppure. E queste due condizioni limite sono, alla fine, piuttosto rare: quando si verificavano, potevano non durare abbastanza a lungo. E se anche duravano, bisognava vedere qual era la velocità di spostamento dell’avversario. Se era legato ad un sistema di trincee, che non doveva e non poteva abbandonare, è una cosa: ma se si trovava in rasa campagna, non legato a una posizione fissa, era un’altra cosa.
Il sottosegretario di Stato all’Aeronautica, generale Giuseppe Valle,  in una sua relazione sulle operazioni in A.O.I., scrisse a proposito dell’aleatorietà dell’azione aerea in un simile contesto operativo:

Data la grande distensione del fronte, la vastità del territorio e l’assenza di centri vitali, il nemico dal punto di vista aereo poteva dimostrarsi organismo amorfo. Truppe non acquartierate e radunate in località non certo determinabili come nei paesi civili, ma aggruppantesi qua e là attorno ai vari capi. I movimenti erano effettuati poi in piste pochissimo note con una suddivisione minuta degli armati che andavano verso punti di concentramento di difficile definizione. Tutto ciò rendeva nullo ed esasperante il compito dell’aviazione.

A passo Uarieu- per fare un esempio tra i tanti, visto che il Del Boca sostiene che la vittoria italiana non sia dovuta all’eroica resistenza della Milizia contro forze venti volte superiori, ma all’uso dell’iprite-  quindi, se davvero vi fosse stato un impiego massiccio dei gas, anche volendo ammettere che le trenta bombe lanciate sul Ghevà fossero ipritiche, a pagarne le maggiori conseguenze sarebbero state paradossalmente le Camicie Nere assediate all’interno del forte.
Gli italiani, si dice, saturarono i fronti avanti alle loro truppe di nuvole di gas: tuttavia è certo che non fu presa nessuna speciale precauzione quando si trattò di andare all’inseguimento, come fecero le Camicie Nere di passo Uarieu e gli ascari di Vaccarisi.
Eppure le truppe indigene, che marciavano a piedi nudi, erano particolarmente esposte alle conseguenze della presenza di gas, così come vi erano esposte le truppe nazionali, in una regione dove l’acqua scarseggiava, e bisognava pur bere.
In realtà non è vero nulla. La ritirata etiopica fu causata dalla sconfitta militare, causata dalla strenua ed inaspettata resistenza della 28 Ottobre e delle Camicie Nere del I° gruppo, che avevano trattenuto le truppe di ras Cassa sino all’arrivo della 2a divisione eritrea.
Tutte le testimonianze sono concordi nel confermare che i primi nuclei di prime forze abissine avevano iniziato a ritirarsi nella serata, ma che i combattimenti si protrassero anche la mattina del 24 e che la rotta avvenne quando comparvero gli ascari e le camicie nere inviate in soccorso dei difensori.
Ras Cassa pretese invece che i suoi guerrieri fossero stati gasati mentre conducevano l’attacco al forte, quindi a ridosso delle posizioni italiane: oltre che smentita dai fatti, la versione abissina è inverosimile dal punto di vista tecnico.
L’iprite è un gas a carattere molto persistente, adatto ad inibire al nemico le zone possedute, manifestando la propria azione tossica molto lentamente, fissandosi al terreno ed alle cose anche per molti giorni e usato nella guerra 1914- 1918 proprio per favorire le ritirate, inibendo l’avanzata del nemico.
Esattamente l’opposto di quanto avvenne a passo Uarieu, ma come probabilmente fu fatto sul Ghevà, ripetiamo, se davvero le trenta bombe C.500T lanciate il 23 gennaio fossero state caricate a gas, per bloccare l’afflusso di rinforzi abissini. Tale possibilità va doverosamente ricordata, anche se la cosa tuttavia non  è certa, dato il rifiuto di Aymone Cat di ordinare l’uso dei gas.
Del resto, come è sempre pronto ad i ingigantire (od ad inventare tout court)  crimini fascisti, veri, presunti o supposti, il Del Boca si dimostra invece ben più comprensivo verso le violazioni delle leggi di guerra da parte degli etiopici.
Come è noto gli abissini fecero costantemente uso di proiettili esplosivi (le pallottole dum dum) il cui uso era proibito dalle convenzioni internazionali.
Tale fatto è totalmente taciuto dagli autori che invece si dilungano sugli i attacchi coi gas moltiplicandoli in maniera irresistibilmente comica. Addirittura Del Boca arriva a scrivere che si trattava di proiettili di piombo dolce: ennesima falsità (fingendo di ignorare che le pallottole a piombo dolce sono anch’esse proibite dalle convenzioni internazionali) perché gli etiopi usavano proiettili forati, o dum dum. Un esempio tra i tanti:

L’ultima delle mitragliatrici conquistate, una Vickers Armstrong, è nuova e moderna, testimonia Sandro Sandri, uno dei migliori corrispondenti di guerra della storia del giornalismo italiano (morì in Cina in uno scontro tra cinesi e giapponesi nel 1937)

 ...Nel nastro di canapa che vi è infilato, ogni venticinque cartucce, normali, ve ne sono dieci forate all’estremità. Le classiche dum dum che quando colpiscono provocano orrendi squarci di difficile guarigione e il più delle volte mortali...

Le pallottole dum dum  utilizzate dagli abissini erano prodotte dalle ditte Société Française des Munitions, Kynoch Witton Limited di Birmingham e Eley Brothers ltd di Londra.
Ma nello zibaldone di Del Boca si cercheranno invano questo tipo di testimonianze, che non collimano con le idee del giornalista novarese. Se la verità va contro la sua tesi, tanto peggio per la verità. Al limite la si bolla come revisionismo...
Per concludere, un accenno ad un episodio marginale della campagna, ma che è utile per comprendere il metodo di lavoro e la selettività di Del Boca. Ci riferiamo al massacro del cantiere Gondrad di Mai Lahlà.
Nelle prime ore di venerdì 13 febbraio seicento abissini (ma secondo alcuni autori erano molti di più) al comando del fitaurari Tesfai, sottocapo del degiacc Aialeu Burrù, assalirono di sorpresa il cantiere n.1 della ditta Gondrad presso Mahi Lahlà, totalmente indifeso, massacrando e seviziando tra sessantotto ed ottantacinque operai e tecnici civili, italiani ed eritrei, tra cui il capocantiere, ingegner Rocca, la moglie di questi, Lidia Rocca Maffioli, forse  uccisa dal marito per evitare che venisse stuprata e seviziata, la cameriera tigrina della signora, ed il vicedirettore del cantiere, l’ingegner Roberto di Colloredo Mels. Tra i morti non c’era un solo militare.
I corpi, compresi quelli delle donne, furono mutilati.
Gli operai ed i tecnici dl cantiere si erano difesi furiosamente, ma senza possibilità di successo.

Il vicedirettore dei lavori, l’ingegnere Roberto di Colloredo Mels, conte del Sacro Romano Impero, aveva avuto la fortuna di trovarsi fuori dalla zona investita; avrebbe potuto mettersi in salvo, scrisse Paolo Caccia Dominioni. Ma era un friulano di generoso ardimento, tenente d’artiglieria da montagna in congedo, erede di una tradizione vecchia di nove secoli. E’ accorso in aiuto del suo direttore, ingegnere Cesare Rocca, di sua moglie Lidia Rocca Maffioli, e degli operai, ma invano. Prima di essere ucciso con tutti gli altri ha potuto far pagare a caro pezzo la carneficina: giacevano, attorno al suo cadavere mutilato, otto morti abissini.

 Roberto di Colloredo ebbe la medaglia d’argento al valor militare alla memoria. Ci piace ricordarlo con la definizione data di lui nella lapide affissa nel liceo classico Stellini di Udine, da lui frequentato: Milite del Lavoro.
Sul massacro di Mai Lahlà i bollettini etiopici arrivarono a scrivere:

Ras Immirù segnala dal fronte nord che il 13 febbraio un distaccamento delle nostre truppe ha attaccato un fortino nemico (…) I nostri hanno sconfitto il nemico che si è dato a precipitosa fuga verso la frontiera lasciando sul terreno 412 morti e qualche prigioniero (Bollettino del Quartier Generale etiopico, Dessiè, 23 febbraio 1936)

Del Boca sostenne sempre a spada tratta la tesi di etiopica che si sia trattato di un atto legittimo di guerra, tacendo accuratamente l’eccidio e le sevizie inferte ai prigionieri. Il modo in cui tratta l’episodio nel suo zibaldone è esemplare della selettività del Del Boca: il santone dell’anticolonialismo italiano non spreca una parola che possa porre l'accento sulla gravità del comportamento abissino, una sola menzione nel testo, virgolettata, delle sevizie, in compenso ampio spazio viene dedicato alle rappresaglie italiane, allo sfruttamento della strage da parte della propaganda fascista, eccetera. Addirittura cita- sottoscrivendola- una dichiarazione di ras Cassa che giustifica il comportamento degli abissini le cui mogli e figli erano stati atrocemente ustionati dai gas, si erano vendicati dei loro selvaggi aggressori massacrando un campo di operai tra il Mareb e Darò Taclè! Viene da chiedersi cosa direbbe l’autore novarese, ex partigiano (ed ex ufficiale repubblichino della Monterosa) se qualcuno giustificasse la strage di Marzabotto con il bombardamento al fosforo di Amburgo.
Nel corso di una trasmissione televisiva sulla terza rete Rai, nel 1998, il Del Boca presentò i filmati dell’eccidio di Mai Lahlà per  immagini di vittime delle rappresaglie italiane ad Addis Abeba. Roberto di Colloredo, biondo e friulano, difficilmente poteva essere confuso con un etiope... ma Del Boca in completa malafede confuse vittime e carnefici per sostenere la sua propaganda, che di storico ha solo il nome e l’avallo di una certa sinistra che, pretende di far cultura, ma fa solo cattiva divulgazione.
Ma la cosa peggiore è che oltre ad Angelo, da qualche anno è spuntato anche il figlio, Lorenzo, autore di (brutti) lavori anti risorgimentali i cui titoli parlano da soli  (Indietro Savoia, Maledetti Savoia, Grande Guerra piccoli generali).
Di padre in figlio.
Come in Corea del nord...


[1] Filippo Cappellano, Basilio di Martino, La Guerra dei gas, Valdagno 2006, p.7.
[2] G. Bottai, Diario 1935- 1944, Milano 1982, p.8 6; il corsivo è di Bottai.
[3] Mignemi Immagine coordinata per un impero, Novara 1984, fig.269, 305, con didascalia sul retro colpito dalla liprite [sic].
[4] I. Montanelli, M. Cervi L’Italia littoria, Milano 1979, p.295.
[5] L. Goglia Storia fotografica dell’Impero fascista, Roma- Bari 1985, p.18 n.20.
[6] :Pignatelli, La Guerra dei sette mesi, Milano 1965, p.238.
[7] Mockler, A., 1972, Haile Selassie’s War, I, The War of the Negus, Oxford (tr. it. Milano 1977)
[8] D. Tschanz “A Short History of Biological Warfare”, Strategy and Tactics 216 (May/ June 2003)., pp.17 segg.
[9] DEPA, tel. Mussolini AO, segreto n. 005.
[10] Goglia 1985, p.10.
[11] Waugh When the going was good, London 1946 (tr. it. Milano 1996), p.409.
[12] Incredibilmente Mack Smith le prende per vere: Mack Smith 1976, p.97
[13] Pierluigi Romeo di Colloredo, I Pilastri del romano impero, Genova 2009, p. 106.

lunedì 20 luglio 2015

Pierluigi Romeo di Colloredo GUADALAJARA 1937 La disfatta che non ci fu

Pierluigi Romeo di Colloredo
GUADALAJARA 1937
La disfatta che non ci fu




















Le truppe del Corpo Truppe Volontarie inviate in Spagna da Mussolini nel 1936 furono tra i migliori reparti di tutta la guerra civile spagnola, ma di esse troppo spesso ci si ricorda solo per la battuta d’arresto subita a Guadalajara, dimenticando le ottime prestazioni durante il resto della guerra.

Eppure, al termine della battaglia di Guadalajara gli italiani, pur avendo fallito l’obbiettivo di raggiungere l’omonima cittadina, erano rimasti padroni di venticinque dei trentacinque chilometri occupati nei primi tre giorni, infliggendo all’avversario quasi il quadruplo delle perdite subite

Un analisi dettagliata e puntuale di quella che la propaganda antifascista spacciò - e spaccia- per la prima disfatta del Fascismo.

Nel presente lavoro si esamineranno lo svolgimento della battaglia, le operazioni, le perdite delle due parti, basandoci sulle cifre e sui documenti d’archivio e i diari di guerra delle unità del C.T.V. conservati presso l’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.

Ne esce un quadro della battaglia ben diverso da quanto preteso dalla propaganda repubblicana, e che una certa storiografia imperante vuole ancor oggi imporre e spacciare come verità. F.to 14x21, 158 pagg., alcune ill. bn e mappe, Euro 20,00.


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martedì 26 maggio 2015

Hans von Luck COMANDANTE DI PANZER Le memorie del colonnello Hans von Luck, 1939-1945




Hans von Luck
COMANDANTE DI PANZER
Le memorie del colonnello Hans von Luck, 1939-1945

Il Colonnello Hans–Ulrich Freiherr von Luck und Witten (15 luglio 1911 – 1° Agosto 1997), nato a Flensburg, nello Schleswig-Holstein, da una famiglia di antica tradizione militare prussiana, servì inizialmente nel gruppo esplorante corazzato della 2. Leichte Division in Polonia nel 1939, per poi passare alla 7. Panzer-Division, comandata dal futuro feldmaresciallo Erwin Rommel, combattendo nella Campagna di Francia nel 1940 e quindi in Russia durante l’Operazione Barbarossa nel 1941 e davanti a Mosca nell’inverno 1941/1942. Trasferito nel 1942 alla 21. Panzer-Division in azione in Nord Africa, ne comandò il gruppo esplorante da Tobruk sino alla ritirata in Tunisia. Dopo la capitolazione dell’Heeresgruppe Afrika fu inviato a Parigi quale istruttore di tattica di reparti esploranti e quindi assegnato alla 21. Panzer-Division in ricostituzione in Francia nel 1944, comandandone il Panzer-Grenadier-Regiment 125. Allo sbarco in Normandia, il suo reparto fu integrato da unità corazzate, esploranti, d’artiglieria e controcarro, formando il Kampfgruppe von Luck, impiegato nei punti focali del fronte: contro i parà inglesi sull’Orne, nella difesa  di Caen, durante l’Operazione Goodwood e infine nella sacca di Falaise, dove von Luck condusse verso la salvezza i resti della 21. Panzer-Division, prendendo il comando della Divisione. Per queste azioni, fu decorato della prestigiosa Ritterkreuz des Eisernes Kreuz l’8 agosto 1944. Dopo l’ennesima ricostituzione, la 21. Panzer-Division e von Luck combatterono quindi nelle ultime battaglie del Reich, nell’Operazione Nordwind in Alsazia nel dicembre e gennaio 1945, e sul fronte dell’Oder opponendosi all’inarrestabile avanzata dell’Armata Rossa in Germania. Catturato dai sovietici ad Halbe nell’aprile 1945, fu internato in un Gulag per cinque lunghi anni. Tornato finalmente in Germania, divenne un uomo d’affari di successo, rimanendo vicino alle associazioni veterani delle sue unità e conducendo numerose conferenze e studi sui campi di battaglia per gli ufficiali dell’US Army e della NATO.

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Il Comandante Bardelli

Il Comandante Bardelli
Rara foto in divisa da Ufficiale della Regia Marina

Il Comandante Bardelli

Il Comandante Bardelli
A Nettuno, nel Btg. Barbarigo della Xa MAS

Il Comandante Bardelli

Il Comandante Bardelli
Assieme ai suoi marò del Barbarigo

Decima MAS

Decima MAS
Ufficiali del Btg. Maestrale (poi Barbarigo): Tognoloni, Cencetti, Posio, Riondino...

MAS a Nettuno affondano un Pattugliatore americano

MAS a Nettuno affondano un Pattugliatore americano
L'azione di Chiarello e Candiollo in copertina all'Illustrazione del Popolo del 19 marzo 1944